martedì 3 ottobre 2006

Ventidue. L’ignoranza uccide.


C’era una volta un signore che aveva un campo, e non sapeva che farsene. Lui non era un agricoltore, neanche un costruttore, aveva solo un campo, un fazzoletto di terra, l’aveva ereditato. Che se ci pensate, è già abbastanza perverso il fatto che qualcuno possa possedere della terra... comunque è sempre stato così, e andiamo avanti nella storia. Questo signore aveva la sua casa lì di fianco, su un altro terreno, ma era un campo troppo grande per farci un giardino e troppo piccolo per diventare un parco e il signore era pigro e non aveva tempo e voglia di piantare alberi e curare fiori, non ne era nemmeno capace. Ma aveva deciso che da questo campo voleva cavare qualcosa. Così cominciò a farsi pagare da tizi loschi che non sapevano dove buttare rifiuti e olii e schifezze e li faceva portare tutti lì. Solo che il signore prendeva l’acqua da un pozzo che era nel suo campo. Come finisce questa storia? Il signore diventò ricchissimo, la moglie si ammalò e morì e dopo poco anche lui. Prima o poi dobbiamo morire tutti, ma perché morire stupidi? Perché uccidersi con le proprie mani? Non ricordo più chi mi ha raccontato questa storia, ma vi giuro che è vera.

sabato 5 agosto 2006

Ventuno. Rumori.

"Nonna, raccontami una cosa, una qualsiasi, di quando vivevate tutti in cascina".
"Di notte non riuscivamo a dormire per il rumore infernale dei bachi da seta che mangiavano le foglie di gelso".
"Io, nonna, non riesco a dormire per il rumore del camion della spazzatura: ma perché passa sempre alle sette e venti sotto casa?"

mercoledì 2 agosto 2006

Venti. Le zanzare si ammazzano a zappate


C'è un sapore, quello della terra bagnata di una fioriera puntellata di roselline palinure e portulache colorate che solo il nano Glauco conosce. Il nano Glauco ha ammazzato Mucomorìs, e si dedica a zappare la terra tutto il giorno. Nessuno come lui conosce la fatica del sole che picchia senza riposo, del caldo che fa sudare anche la pietra e i fiori.Dalla sua postazione, tutti i giorni, vede gente che si desnuda, vede la cicciona con la sua mutanda di ghisa, vede la cagna che abbaia alla spazzatura vede l'uomo col bambino e la vecchia che fa la guardia alla sua casa.Non dorme mai la vecchia, e non dorme neanche Glauco perché le zanzare ti possono sempre attaccare all'improvviso. E bisogna essere pronti, con la zappa.

giovedì 2 marzo 2006

Diciannove. C'era una volta.


C’era una volta la cascina. Abitata da tante persone, una piccola comunità autosufficiente, sorvegliata dal padrone fitavul che nella struttura a corte chiusa aveva la casa più grande e più bella, sempre di fronte o di lato all'entrata, per sorvegliare lo spazio interno.
Nella cascina si allevavano animali, e le vacche erano fondamentali nell’economia contadina, carne e latte. La stalla delle vacche da latte, lo stallon, era a nord, le stalle dei cavalli a est o a ovest. i tre locali necessari alla lavorazione del latte, la casiróla per la conservazione del latte, il casón con fornello e caldaia per la trasformazione del latte in formaggio e la casèrä per la conservazione e stagionatura del formaggio.
C’erano poi, vicino alla casa del fittavolo la cantina, il locale per il torchio delle uve, la lavanderia e il forno per il pane.
I barchi (portici) venivano spesso adibiti a stalla estiva.
Dall’altro lato della corte vivevano le famiglie dei contadini che passavano due terzi dell’anno a lavorare nella cascina, case modeste, con solo due stanze: una sotto con camino e una sopra senza camino, dove dormivano tutti i membri della famiglia. A volte i contadini decidevano di cedere la stanza ai bachi da seta, e questa diventava bigattera. C’erano anche l'arsenàl, ovvero i locali per il fabbro e il falegname ricavati in un porticato. E visto che il frigorifero non era ancora stato inventato era indispensabile la giascèra, un buco profondo circa 4-5 metri in cui, con un'asse (lo sgurón), si faceva scivolare il ghiaccio sul fondo dove si conservava fino ad agosto. Il ghiaccio era ricavato allagando un campo in pieno inverno e tagliando la crosta ghiacciata in grossi cubi.
E fuori la concimaia, e poi i prati, le risaie, i filari di gelsi, oggi praticamente scomparsi e sostituiti da pioppi. Gli alberi posti sul bordo di canali e fossati servivano all'allevamento dei bachi e proteggevano i raccolti dai venti.
Ogni tanto camminando per strada, in piena città, si incontra ancora qualche cascina. Lo si capisce subito dai fori a croce della parte superiore che di solito rimangono, anche quando vengono ristrutturate. Ce n’è almeno una per ogni quartiere. Da alcune hanno ricavato appartamenti, villette o abitazioni a più piani. Altre non sono più abitate, vengono usate come circoli o luoghi di incontro. Quando mi imbatto in qualche cascina mi dico: un tempo qui intorno erano tutti campi, se qui c’è una cascina vuol dire che questa parte della città era disabitata, coltivata, che c’erano grandi spazi per vivere e respirare. Oggi sono soltanto reperti incastonati in mezzo a case e palazzine, circondate da strade grigie, alberi stranieri e rumori di clacson, da cui non si riesce più a vedere neanche un tramonto.

(per le informazioni sulle cascine: MUVI – Museo virtuale della storia collettiva di una regione)

martedì 21 febbraio 2006

Mi manchi, Buenos Aires



Buenos Aires è molti mondi; il centro è un mondo, di lotte e proteste e di storia e di allontamenti; la periferia è un mondo, che si nutre di terra, che oggi è qui e domani sarà più in là; Palermo è un mondo, di alberi e boschi, e laghi e passeggiatori di cani; la Recoleta è un mondo, di lussi e shopping e ricordi di antichi ricchi esiliati, di palazzi alti e lussuosi, di libri e cultura; San Telmo è un mondo, di colori e antichità e vecchie vestigia e rovine e sotterranei e musiche e spartiti di tango, il tango è un mondo, che sorvola altri mondi, con musiche strazianti e passi di danza, e nostalgia e ricordi di qualcosa che già non esiste più; la Boca è un mondo, che profuma di mare e di focaccia genovese, di urla di calcio; Belgrano è un mondo, di cortili nascosti e alberi intrecciati nel centro delle strade, di fiorai aperti fino a tarda notte, l’Ippodromo è un mondo; il Tigre è un mondo, di canne e canali e ristagni e treni lenti e lontani; le villas vicino a Retiro sono un mondo, di povertà e gente disperata, dove i miserabili espiano i delitti dei corrotti delle alte sfere, dove la polizia non ha il coraggio di entrare; le donne argentine sono un mondo, di gambe lunghe e occhi grandi, e movimenti delicati, di resistenza e sopportazione; la noche argentina è un mondo, di bar e musica elettronica, e incontri fugaci, e pizza e champagne; il subterraneo è un mondo, che scivola sotto i passi e le vite delle persone; gli autobus – i coletivos – sono un mondo, di pericolosi sorpassi e tragitti infiniti, le grandi strade - le avenidas - sono un mondo, dove gli anziani non possono mettere piede e i pedoni trovano rifugio sui marciapiedi, grigie isole separate dalla strada dal fossato dell’acqua piovana mista a sporcizia che si accumula ai bordi, in cui a volte, soprapensiero, si sprofonda con una bestemmia.

Gli abitanti di Buenos Aires – i porteños – sono quadri dipinti a più mani e nelle loro vene si mescola il sangue di tutte le generazioni di tutto il mondo di tutti i tempi.
E in questi molti mondi a volte qualcuno impazzisce, e crede di vivere in un altro mondo, perché nessuno ascolta la sua voce.

venerdì 27 gennaio 2006

Silenzi/7. Non è un sogno


E' nevicato. E sta nevicando ancora. E continuerà finché non abbandoneremo le nostre stupide abitudini, finché non impareremo a camminare, finché le auto non saranno che bianche soffici collinette che evocheranno sogni infantili di hanselegretel, scenari williwonkesi, seni di fate nordiche. Continuerà finché non ci abitueremo al silenzio dei fiocchi che cadono. E non ne potremo più fare a meno.

sabato 21 gennaio 2006

Diciotto. Pedalare nella nebbia.



Se non ci fosse io la inventerei. Dico, la nebbia. Che è l’unica cosa genuina che ci è rimasta a noi. Perché pedalare nella nebbia è come pedalare nella neve, nel bianco lattore del tuttointorno, delle cose lontane e indefinite, dei suoni attutiti, degli incontri immaginati, degli improvvisi ritrovamenti, delle sagome indovinate.